martedì 6 gennaio 2009

Un po' di STORIA 6 - Bert Trautmann






Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé come le pagine di un libro imparato a memoria. Aforisma di Virginia Woolf

Da paracadutista della Luftwaffe di Hitler a ufficiale dell'Ordine dell'Impero britannico. La vita, le emozioni e la carriera sportiva di Bert Trautmann sono racchiuse in questi due fotogrammi. Remoti. Contrapposti. Distanti anni luce tra loro. Raccontare la storia del soldato Bert è quasi come rievocare un capolavoro del cinema come «Fuga per la vittoria». Il periodo storico è lo stesso. La ricostruzione scenica pure. Anche in questo caso ci sono buoni e cattivi, campi di prigionia e una squadra di galeotti che gioca a pallone.
Bernhard Cari «Bert» Trautmann, nato a Brema nel 1923, era un giovane coraggioso e irrequieto. Completamente soggiogato dalla dottrina nazista. Aveva appena 17 anni quando decise di arruolarsi come paracadutista nella Luftwaffe, l'aviazione militare più potente e temuta al mondo. Non aveva neppure terminato gli studi quando scelse di far parte di un corpo speciale votato alla morte, all'estremo sacrificio. Bert d'altra parte con la morte ci conviveva. Sembrava subirne il fascino. Sopravvisse al bombardamento della città olandese di Arnhem, rimanendo per tre giorni sotto le macerie di una scuola. Restò illeso all'esplosione in pieno volto di una bomba a mano. Sfuggì ai russi, ai francesi, persine agli americani davanti a un plotone d'esecuzione.
Danzava tra i proiettili e giocava a dadi con la sorte. Fino al 1945. Quando venne catturato dalle forze armate britanniche e spedito nel campo di prigionia di Ashton nel Lancashire. Nella città che diede i natali al leggendario attaccante Geoff Hurst.
In attesa di conoscere il proprio destino trascorreva l'ora d'aria giocando a calcio con gli altri galeotti. Da ragazzine si era dedicato al nuoto e alla pallamano. Il fussball non l'aveva mai praticato. Ignorandone la naturale predisposizione. Bert si rivelò infatti un valido centrocampista difensivo, tutto fosforo e polmoni. Durante una di queste partite si infortunò al ginocchio. Non riuscendo più a correre chiese di cambiare ruolo col portiere. Una circostanza tanto fortuita quanto decisiva per la sua vita. Tra i pali il ragazzetto tedesco sembrava saperci fare. Era un acrobata. Era stato per anni paracadutista e volare da un palo all'altro con estrema disinvoltura non rappresentava certo un problema. Il fisico scolpito nel marmo gli permetteva di scagliare con le mani il pallone oltre la metà del campo. Un gesto atletico emulato negli anni a venire da un altro superman teutonico, Tony Schumacher.
Tanta grazia non poteva certo rischiare di deteriorarsi in un carcere militare. Lo pensarono in molti vedendolo giocare. Anche un secondino che arrotondava lo stipendio come osservatore di una squadra di quarta divisione inglese di Saint Helens Town. Capitale britannica del rugby, più che del calcio. Il provvidenziale ingaggio fu il lasciapassare per balzare oltre le sbarre. Per lasciarsi alle spalle un passato scomodo e tormentato da soldato della gioventù hitleriana. Un passato che purtroppo riesplose in tutta la sua recrudescenza nel 1949, quando firmò un contratto da professionista con il Manchester City per rimpiazzare la gloria locale Frank Swift. Terribile fantasmi che canzonarono Bert nella partita d'esordio contro il Bolton. La stampa aveva già provveduto a gettare benzina sul fuoco titolando a nove colonne II Gty ha ingaggiato un nazista.
Al resto ci pensarono cinquantamila spettatori inferociti che gli urlarono di tutto. Dal razzista al genocida, all'assassino. Altri quarantamila nel frattempo sfilarono per le strade di Manchester chiedendo al governo britannico di rimpatriarlo. Un clima caldo, fin troppo arroventato per l'umida e piovosa Inghilterra. Fu Trautmann a diffondere nell'aria una brezza refrigerante. A trasformare fischi e insulti in applausi. «Sono convinto che la rabbia dei tifosi non fosse rivolta a me, ma piuttosto alla Germania racconta. Un tedesco che appariva in Inghilterra a pochi anni dalla fine del conflitto per giocare a calcio lasciò interdette molte persone. Riaprì ferite. Con l'aiuto dei miei nuovi compagni ho superato tutte le difficoltà. Ed è così che l'Inghilterra è diventata casa mia. Proprio come lo era stata la Germania».
Sembrava un'impresa impossibile trasformarsi da invasore a eroe. Ma Bert Trautmann accettò la sfida e la vinse. Raggiunse l'apice della popolarità il 5 maggio del 1956. Una data che i tifosi del Manchester ricordano con plausibile orgoglio. Perché quel giorno il City sollevò al ciclo la Football Association Cup. Un trofeo che in Inghilterra vale più dello scudetto. E per mettere le mani su quella coppa il soldato Bert rischiò ancora una volta la vita.
La sfida col Birmingham si stava trasformando in una battaglia. Con la difesa del City in trincea e gli awersari che stavano provando le ultime disperate incursione per riacciuffare quantomeno il pareggio. Uno scenario che al portiere tedesco ricordò frammenti di vita passata. L'attaccante Peter Murphy saltò come birilli i giocatori del reparto difensivo. Trautmann, ultima sentinella a separarlo dalla gioia del gol, in una combinazione di coraggio e imprudenza fece scudo con il proprio corpo. Immolandosi come un impavido kamikaze a Pearl Harbour. Fu come essere investito da un treno in corsa. La coscia di Murphy gli spezzò praticamente il collo. Bert restò a terra. Privo di sensi, ma con il pallone saldamente tra le mani. Lo rianimarono con i sali, ma non si rese conto di avere una vertebra del collo fratturata e riprese a giocare. Salvando ancora il risultato negli istanti che precedettero la fine delle ostilità. In una foto sbiadita di mezzo secolo fa si scorge Trautmann che passeggia sulla linea di porta massaggiandosi il collo. Ignaro del grave incidente. Soltanto quattro giorni più tardi scoprì di essere stato assistito ancora una volta dalla buona sorte. Da Lady Luck, come scrissero i giornali dell'epoca. Come quando riuscì a fuggire dal plotone d'esecuzione dei soldati americani armati di fucile e con il colpo in canna. I raggi X rivelarono che la seconda di cinque vertebre fratturate si era spezzata di netto in due. Bert era sopravvissuto solo perché una delle altre vertebre si era appoggiata su quella rotta mantenendola al suo posto. Una circostanza fortuita che gli salvò la vita. Un episodio che cancellò del tutto dalla mente dei tifosi l'immagine di Trautmann ambasciatore del diavolo. E che gli offrì l'opportunità di vincere il premio di miglior calciatore inglese. Riconoscimento che il campanilismo inglese aveva tenuto a debita distanza da chi non aveva sangue british nelle vene.
L'unico rimpianto nella splendida carriera di Trautmann fu quello di non aver difeso la porta della Nazionale tedesca. Il et dell'epoca Seep Herberger non vedeva di buon occhio i calciatori che militavano all'estero. Tanto meno die TorwartLegende, che giocava sotto la bandiera del nemico britannico. E così Bert non prese parte al Mondiale in Svizzera del 1954. Quello vinto proprio dalla Germania sulla sorprendente Ungheria. «Fu comunque una grande emozione. Seguii ogni azione della partita alla radio. Ero a Manchester, ma a Berna con il cuore». Giocò per il Manchester City fino al 1964, disputando 639 gare ufficiali. A quarantanni suonati alzò bandiera bianca e il «Main Road» salutò il suo addio dalle scene calcistiche con un applauso lungo dieci minuti. Sugli spalti uno striscione recitava, Nessuno stadio vedrà mai più un altro Bert Trautmann. Il meritato tributo del pubblico per l'uscita di scena di un formidabile alfiere. Il commiato del soldato Bert emozionò anche Bobby Charlton, bandiera del calcio inglese e avversario di tante sfide con la maglia dello United. «Nel calcio ci sono stati due grandi portieri. Uno era Lev Jashin, l'altro il ragazzone tedesco che giocava nel City».

Nessun commento:

Posta un commento